In aula • 14.10.2022
Dopo trent’anni trascorsi nelle cucine fine dining d’oltreoceano e d’Europa, lo chef Riccardo Cominardi ha deciso di mettere la sua professionalità al servizio della formazione: oggi, infatti, è docente in CAST Alimenti, oltre che consulente.
La sua avventura professionale inizia a Brescia nel 1985 e prosegue a Los Angeles presso il Ristorante “Valentino”, icona del Italian style. E proprio qui, a soli 19 anni, viene premiato come “chef emergente più giovane di Los Angeles”. Quando decide di tornare in Europa, lavora a Montecarlo all’Hotel de Paris sotto la guida di Alain Ducasse e poi di nuovo in Italia, prima a “Il Cavallino” di Desenzano e poi a “La Casa” di Bedizzole, entrambi 1 stella Michelin.
Nel corso di Alta Formazione Cuoco in CAST Alimenti si occupa di alcuni approfondimenti su salse madri, carni e pesci e sull’uso di erbe aromatiche e spezie in cucina, oltre a sviluppare consulenze e corsi di formazione anche in sedi esterne. È inoltre nel corpo docenti dei Corsi di Specializzazione per professionisti e nei Corsi per stranieri.
Perché, dopo tanti anni come chef in cucine prestigiose, hai deciso di dedicarti alla formazione?
Vedi, la dedizione che ti viene richiesta quando lavori a certi livelli è tale, che quando decidi che è arrivato il momento di riappropriarti della tua vita, smetti di lavorare. Sia chiaro, non rimpiango nulla della mia carriera: ho dedicato tutto alla cucina e in cambio ho ricevuto tantissimo. Quando ho interrotto con la ristorazione, nel 2014, ho capito di avere un tale bagaglio di esperienze da poterlo mettere a disposizione di chi volesse fare il mio mestiere. Questo è il motivo per cui, quando insegno, mi piace condividere tutto con i miei allievi, senza riserve. Non ho segreti per loro, al punto che metto a disposizione anche tutte le mie ricette. Se, invece, mi chiedi una cifra che distingue il mio modo d’insegnare, senza dubbio è l’entusiasmo. Insegnare mi piace e credo che me lo si legga negli occhi. Nelle mie lezioni non mi accontento mai di fare “il compitino”, tanto che spesso, preso dalla spiegazione, mi dilungo e vengo ripreso perché sforo l’orario di lezione!
Cos’è, secondo te, importante trasmettere a dei giovani aspiranti chef?
La prima cosa che cerco di capire è se si sono iscritti al corso per emulare gli chef stellati che hanno visto in televisione o perché li muove una passione autentica. Per me questa è un’informazione importante, perché solo la passione li potrà aiutare a superare i sacrifici che questo lavoro comporta e che io, con la mia solita schiettezza, non mi stanco di ripetere ai ragazzi.
Credo che oggi sia utile insegnare ai ragazzi più il mestiere di cuoco che le ricette, che possono trovare ovunque senza difficoltà, mentre il vissuto professionale, tutte le variabili che possono accadere in una giornata tipo, questo sui libri non lo trovi di sicuro! Voglio trasferire ai ragazzi l’anima di questo mestiere che è fatta di passione, competenze, talento, tecniche, disciplina, etica e senso di responsabilità verso gli altri … non è cucinare e basta.
Sulla base della tua esperienza, da cosa capisci che un ragazzo/a ha la stoffa per diventare un bravo chef?
Nei miei ormai 38 anni di formazione, ne ho visti tanti di ragazzi … capisci subito se uno chef è promettente dal modo in cui ti guarda quando spieghi, dalle domande pertinenti, interessanti e sensate che ti fa, a livello pratico dalla manualità con cui usa un coltello e magari, contemporaneamente, segue una padella sul fuoco. Sono tante, piccole cose che sommate ti fanno capire che una persona è predisposta per la cucina e che avrà più opportunità di altre di emergere in questo mestiere.
Attualmente, parte della tua consulenza la svolgi negli Stati Uniti, che sono un po’ una tua seconda casa. Cosa, secondo te, della nostra cucina affascina di più gli americani?
Che è buona! Pensa solo al portafoglio d’ingredienti che abbiamo a disposizione: è talmente vasto e vario da regione a regione, rispetto ad altre cucine, tipo quella sudamericana, che è un vero patrimonio a cui attingere per creare piatti. Già solo essere italiano in America ti dà dei punti in più, perché gli americani amano tutto ciò che è Made in Italy. Ti basta fare anche una buona pasta al pomodoro con una burrata tagliata che ci cola sopra e per loro è già un mangiare sopraffino. Per altro, fare cucina italiana negli Stati Uniti non è più complicato come trent’anni fa, perché i prodotti italiani sono ormai tutti disponibili, anche quelli tipici regionali e con una shelf-life ridotta. Sai che, proprio a Los Angeles, dove ho lavorato per tanto tempo, c’è un ristorante 2 stelle Michelin di cucina italiana? Mi piace pensare di aver contribuito un po’ anch’io a far conoscere la cultura della cucina italiana nella “città degli angeli”!