Vita della scuola • 14.02.2020
“La mia è una sperimentazione inversa perché recupera dalla tradizione i metodi spesso dimenticati.”
Cresciuto vicino a Bergamo, dopo il diploma presso l’Istituto Alberghiero di Darfo Boario Terme (BS), a soli 17 anni Camanini inizia la sua carriera all’Albereta di Gualtiero Marchesi. Poi l’Inghilterra con Raymond Blanc e un’esperienza parigina con Jean-Louis Nomicos, allora braccio destro di Alain Ducasse. Per 16 anni è executive chef a Villa Fiordaliso sul Lago di Garda, dove si aggiudica una stella Michelin. A 40 anni decide di voltare pagina e a marzo 2014 lancia con il fratello Giancarlo, socio e responsabile di sala, il Lido 84. Ed è nel laboratorio/cucina di questo ristorante che nascono piatti iconici come il “Cacio e pepe in vescica”, lo “Spaghettone al burro e lievito di birra”, la “Pecora cotta nella cera d’api o sbernia”, … Tutti piatti che fanno dello chef Camanini, secondo il Gambero Rosso, uno dei massimi interpreti della “New Ancient Cuisine”, vale a dire: innovare i canoni della “haute cuisine” italiana attraverso la sperimentazione e la conoscenza delle tecniche, anche attingendo a ricette antiche o riscoprendo materie prime e tecniche in via di estinzione, senza mai dimenticare il gusto e la gratificazione dei propri clienti.
1. Raccontaci il tuo percorso professionale. Dove ti sei formato?
Ho iniziato molto giovane, a 14 anni, con la scuola alberghiera ed è stato un percorso molto comune, con gli extra dei lavori stagionali per fare pratica. A 17 anni ho avuto l’occasione di entrare da Gualtiero Marchesi, la cucina più contemporanea e accademica dell’epoca. Ho ancora un ricordo vivido dell’approccio del tutto particolare al mestiere di chef del Maestro. L’eleganza della sua cucina, la profondità di pensiero, l’attenzione alla materia prima… tutta la sua personale rilettura delle basi della cucina italiana.
Affiancando Gualtiero Marchesi ho capito che un modo per vivere con maggiore consapevolezza e meno stress il lavoro di chef era di mettere l’artigianalità, propria di questo lavoro, al servizio del pensiero creativo. Una saggezza indispensabile soprattutto a quell’epoca, quando i collaboratori nelle cucine non godevano di considerazione come oggi.
A vent’anni, dopo 3 anni in un ristorante 3 stelle Michelin come l’Albereta, mi si è aperto subito lo scenario estero: Inghilterra e poi Francia, spinto dall’ambizione di andare a Parigi, la “Hollywood della gastronomia”. Dall’esperienza francese ho imparato moltissimo: dopo la “metrica” di lavoro acquisita da Marchesi, in Francia ho conosciuto il gusto. Infatti, mentre la cucina italiana è molto frammentata, fatta di ricette regionali, quella francese si àncora su basi classiche, strutturate dai grandi chef: Escoffier, Careme, ecc. Inoltre, mentre in Italia il gusto è dato dall’abbinamento di sapori semplici (si può fare molto già con un filo d’olio e un po’ di salsa di pomodoro) il gusto in Francia si basa sulla composizione da “profumieri” dei sapori, delle salse, delle arrostiture, delle partite dei secondi, dei prodotti etnici, ecc.
2. La tua è una cucina semplice, di sintesi, ma con una grande complessità di percorso. Spiegaci come avviene, per Riccardo Camanini, la creazione di un piatto, che è stato anche l’argomento della tua masterclass di oggi?
Come raccontavo in aula, non c’è una matrice, una linea guida che genera la nascita di un mio piatto. Negli ultimi tempi nasce principalmente nel modo più naturale: dall’ingrediente. I piccoli numeri del Lido 84 ci hanno permesso di collaborare con piccolissimi artigiani di materie prime d’eccellenza, ma di breve durata. L’entusiasmo con cui accogliamo le verdure del contadino è simile a quello di un sarto per il broccato più prezioso! Questo entusiasmo è guidato, però, da letture, viaggi, studi, memoria gustativa (tutto quello che ho assaggiato negli anni)… creo un piatto non partendo mai dall’estetica o da uno studio a tavolino, ma dal lavoro in laboratorio. Ho un rapporto “vivo” con la cucina, mi piacciono gli attrezzi, i rumori della cucina italiana, la sua armonia, ma anche la sua irruenza quando i tempi si accelerano e sale l’adrenalina per catturare l’apice del gusto di quel preciso ingrediente.
3. Il tuo lavoro è fatto anche di studio e ricerca. C’è, secondo te, in cucina, un limite alla sperimentazione?
Non ci sono barriere. Esistono però limiti etici, bisogna evitare di oltraggiare i precetti di altre culture, e mai cadere nella mancanza di rispetto del prodotto.
4. La creatività ti distingue e molte sono le proposte che ti hanno reso famoso. Quale ami particolarmente o reputi particolarmente distintiva della tua filosofia di cucina?
Sono tanti i piatti che mi piacciono. Li vedo passare giornalmente davanti ai miei occhi, li assaggio e ce ne sono alcuni che vedo più spesso, che piacciono di più ai clienti. La pasta, per esempio, è un argomento che mi stimola molto, lo trovo tra i più sfidanti. Non ho un piatto preferito, sono alla continua ricerca della sintesi in un piatto. Il gesto più bello è mettere in armonia pochissimi ingredienti, lavorandoli poco, come mi ha insegnato Marchesi.
5. Come selezioni i fornitori? Preferisci materie prime locali?
In prima battuta, anche per ottimizzare il tempo, lavoriamo con fornitori del lago di Garda. C’è la facilità di lettura: sono luoghi, sapori che ci appartengono e che conosciamo bene. Scegliamo i fornitori tramite passa parola tra colleghi, mentre è il tempo che seleziona le collaborazioni in base alla costanza e al dialogo che si instaura con loro. Nel tempo, infatti, impariamo a conoscerci e a capire le reciproche esigenze. I fornitori consolidati sanno che mi interessa la qualità, non la “nobiltà” di un prodotto che non definisco mai in base al costo, ma all’ “eccellenza” per difficoltà di reperibilità, micro-stagionalità, microzona territoriale di provenienza.
6. Come scegli la tua brigata di cucina e quali caratteristiche ricerchi in un collaboratore?
Passando tutto il giorno al lavoro e stando quindi molto tempo assieme, è chiaro che cerchiamo di scegliere dei collaboratori che siano molto in sintonia con le nostre attitudini. Ciò che mi cattura è prima di tutto il fattore umano che cerco di intuire dal percorso professionale. Guardo moltissimo la scuola di provenienza e il voto con cui sono usciti. Puo’ sembrare una banalità, ma mi fa capire come lo studente abbia sviluppato già in giovane età il senso del dovere e la riconoscenza verso la propria famiglia che gli ha dato l’opportunità di studiare. Non guardo quasi mai l’esperienza, anzi, prediligo chi ne ha pochissima, perché è una base neutra su cui poter lavorare. Pongo molta attenzione al modo di porsi di un candidato, l’eleganza, la pulizia, la maturità e la consapevolezza del lavoro in cucina con la grande fatica psico-fisica che comporta.
7. Ai ragazzi della tua brigata insegni anche l’attenzione agli sprechi e il calcolo del food-cost di un piatto. Sapere come gestire in modo ottimale la sala e la cucina, quanto incide sulla buona conduzione di un ristorante?
La sostenibilità non solo economica, ma anche etica, è uno degli aspetti più importanti per la buona riuscita di un locale. Dare un senso responsabile ai prodotti che usiamo ogni giorno in cucina, permette di ottimizzare gli sprechi che hanno una ricaduta molto pesante sulla società. Dimostro concretamente ai ragazzi che tramite piccole attenzioni quotidiane possiamo ottenere un risparmio che ci permette di comprare, per esempio, un’attrezzatura di cucina che ci fa risparmiare tempo.
8. Che futuro vedi per la cucina italiana?
Non so rispondere sul futuro della cucina, già è difficile essere hic et nunc, ancorati all’oggi! Sul futuro della nostra professione penso invece che sarà sempre più a misura d’uomo. Nei ragazzi che iniziano questo lavoro vedo sì, la volontà di fare eccellenza, con basi solide e un’attenzione all’etica in cucina, ma senza rinunciare al proprio tempo libero, come già succede nei Paesi nordici. Quindi, ci saranno magari sempre di più ristoranti aperti solo la sera, senza troppi orpelli, ma con più concretezza. Una cucina eccellente può avere anche la tovaglia di carta.
9. Riccardo, alla fine di questa giornata, cosa vorresti che rimanesse ai professionisti presenti alla tua lezione?
La curiosità e le domande che rimarranno nella loro testa. Ho scelto per questa masterclass di non parlare di tecnicismi, ricette con passaggi particolari o difficili, ma del processo creativo che sta dietro ad una ricetta, di come arrivare in maniera naturale alla creazione di un piatto. Penso, infatti, che le ricette siano solo un mezzo, mentre cercare d’interpretarle in maniera personale è la parte più entusiasmante del nostro lavoro.